Il sole comincia a svegliarsi alle sei e mezzo del mattino. Esco allo scoperto prima io di lui, ma non è affatto male quando inizia a scaldare dal finestrino, un po' oscurato e non troppo pulito, del treno.
Arrivo a Pavia. Quello che vedo dalla stazione all'ospedale non mi permette di avanzare ampi giudizi, eppure trovo che sia una bella città; una città non troppo grande, che mette a propio agio, un po' come la mia. Ma più particolare della mia; sicuramente molto di più. E sono consapevole del fatto che esprimo questo pensiero per via di un'abitudine infelice che mi fa apprezzare tutto ciò che differisce da questo luogo.
Arrivo al policlinico, giungendo al padiglione della clinica allergologica dopo aver camminato in mezzo ad altri padiglioni. Mi piacciono gli ospedali che sono strutturati in questa maniera: non all'interno di un'unico triste palazzo, ma divisi per settori; mi ricorda un po' l'organizzazione di una caserma, ma anche una sorta di villaggio. L'impatto, nel complesso, è positivo ed è già qualcosa, per un ospedale. Almeno l'ambiente deve - dovrebbe - essere confortevole.
Faccio quello che devo fare e aspetto il tempo che devo aspettare. Poi finalmente ho l'esito.
Problema: una fastidiosissima dermatite che da tempo mi stava devastando le mani.
Soluzione (o, meglio, causa del problema da cui potrà arrivare la soluzione): allergia ai profumi.
La dottoressa che mi espone la diagnosi mi dice che devo cambiare cosmetici, detergenti igienici e detergenti per gli indumenti. Non sarà facile trovare prodotti che non contengano alcuna traccia di un qualche profumo, ma penso anche che non sarà nemmeno impossibile. E, soprattutto, nonostante un primo scoraggiamento, credo che poteva andarmi peggio (e lo dico compiendo allo stesso tempo un gesto scaramantico, che nella vita non si sa mai...). Dovrò pestare un po' di attenzione, portare sempre con me un sapone apposito per evitare quelli ultrachimici che si trovano nei bagni dei locali, del posto di lavoro, ecceteraeccetera.
Fuori dall'ospedale, ho ancora quasi due ore da far passare prima di riprendere il treno. Faccio un giro in centro e mi addentro in una farmacia per incominciare a rifare il mio beauty: compro quattrotrucchiquattro e spendo cinquantasette euro. Nella mia testa Sora Lella esclama un "Annamo bbène!!!". D'ora in poi la mi agiornata sarà un decrescendo di umore e un crescendo di sfiga: il treno che si guasta in un posto dimenticato da Dio e l'ora d'orologio che occorre attendere per l'arrivo del treno successivo; il conseguente ritardo al lavoro che mi costerà di rimanere in ufficio fino alle sette; un'altra tappa in farmacia per comprare shampi e saponi senza profumo che mi costeranno altri trenta euro...
Quando rimetto finalmente piede in casa, sono le otto di sera. Decido di evitare la razione quotidiana di studio, e questo peserà sui sensi di colpa, ma nemmeno poi tanto. La stanchezza accumulata non sarebbe produttiva; vorrà dire che mi impegnerò un po' di più nei giorni a venire (anche se a parole è tutto facile, nei fatti, poi, bisogna vederlo, questo impegno...).
Direi che ora sono pronta per andare a dormire. Anzi, tolgo il condizionale, mi butto sotto la doccia e saluto. Domani è fin troppo vicino.
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